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Democrazia ad intermittenza Biennale

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Tra i protagonisti (nonché partner) di Biennale Democrazia 2015, che si sta svolgendo dal 25 al 29 Marzo a Torino, la fondazione Compagnia di San Paolo è stata eletta portavoce dei “casi di trasformazione urbana e architettonica” che avrebbero promosso sul territorio cittadino “processi di partecipazione attiva che hanno assunto come fondamentali i valori comunitari, di coabitazione di generazioni diverse, dell’ecologicamente sostenibile, dell’assenza di barriere architettoniche, dell’interculturalità e dell’integrazione sociale.

Sono queste le parole che descrivono gli argomenti del dibattito “Chi costruisce la città?”, che si è tenuto ieri 27 Marzo, nei rinnovati spazi del Maneggio Chiablese della Cavallerizza Reale, a fianco della Cavallerizza Occupata. 

Insieme a Compagnia di San Paolo, per un confronto tra le diverse realtà territoriali, anche Michael La Fond, direttore dell’ Istitut for Creative Susteinability di Berlino e Federica Verona, coordinatrice del progetto milanese Zoia e Stefano Boeri, presidente della Fondazione dell’ Ordine degli architetti di Torino.

Una conferenza con biglietto da visita di sicura tendenza. 

Abilmente padroneggiate dal formalismo fuorviante dei discorsi istituzionali, le espressioni “interculturalità”, “integrazione sociale”, “ecologicamente sostenibile”, “coabitazione” e “partecipazione attiva” s’insinuano ormai da tempo negli obiettivi di pratiche di riqualificazione urbana che, ammiccando al bacino elettorale con terminologie falsamente inclusive, hanno invece l’obiettivo di rendere le città “efficaci” nuclei di competitività e produttività finanziarie.

Snodo di nevralgici scambi redditizi, i centri urbani si trasformano da “habitat”, tessuti socio-culturali dinamici, ad attori economici su cui esercitare imperativamente l’ autorità delle politiche di “governo del territorio”.

Ma non sono certi gli abusi linguistici a destare maggior preoccupazione: è altamente significativa, invece, la partecipazione a questo dibattito della Compagnia di San Paolo, promotrice del proprio Progetto Housing, di cui recentemente è uscito l’ esito dello stanziamento di fondi per lo sviluppo di esperienze abitative innovative a uso sociale, finalizzate a: migliorare le opportunità abitative di persone in situazione di vulnerabilità economica e/o sociale; sviluppare nuove pratiche e servizi inerenti l’abitare sociale.” (così vorrebbero le linee guida del bando). Tali fondi sarebbero destinati ad una ventina di enti pubblici ed associazioni private o istituti benefici piemontesi per la realizzazione di diversi progetti abitativi rivolti a giovani, studenti, giovani coppie, “servizi di accompagnamento al cohousing”.

La maggior parte di questi progetti, inoltre, sarebbe solo una soluzione temporanea (si parla di un paio di annualità), benché vengano esaltati sulla carta il loro potenziali risolutivi ad alto contenuto sociale. Ma facciamo un passo indietro.

L’entusiasmo che sta attualmente dilagando nel dibattito politico, economico e giornalistico per il cosiddetto “social housing”, cui apparterrebbe anche il progetto di Compagnia di San Paolo, si colloca in un contesto in cui l’edilizia residenziale pubblica, ormai ritenuta insostenibile giogo sulle casse statali e regionali, viene progressivamente dismessa a prezzi d’asta di mercato per l’ulteriore riduzione di risorse da destinare ad una popolazione impoverita e con necessità di tutela crescenti (si fa riferimento all’ art. 3 del decreto n. 47/2014, Piano-Casa del ministro Lupi).

Paradossi: sembrerebbe che il “social housing”, espressione anglosassone che non significa nulla di più che “edilizia sociale”, si ponga come soluzione evolutiva e progressista di un’ edilizia residenziale pubblica retaggio di un welfare fallito ed evocativa (come purtroppo è vero) di quartieri e zone residenziali lasciati spesso in stato d’incuria, abbandono o addirittura vuoti. Insomma, risorse da destinare al social housing, ma non all’ e.r.p., la cui offerta abitativa si sarebbe ridotta a partire dagli anni Ottanta del 90%, a fronte di un incremento dei canoni di mercato del 105% nel solo periodo 1991-2009. L’ esistenza di una seria questione abitativa è ancor più innegabile attraverso questi ultimi dati ufficiali del Sistan: in Italia nel 2011 sono stati eseguiti circa 140 sfratti al giorni, l’ 87% dei quali per morosità, senza che venisse offerta alcuna soluzione di passaggio. E Torino ben conosce le problematicità dell’ alta tensione abitativa, non affievolitasi negli ultimi anni.

Quindi, mentre lo Stato si fa da parte de-responsabilizzandosi delle sue prerogative sociali, il “social housing”, i cui progetti di proposte abitative sarebbero gestiti dai fondi immobiliari, dalle fondazioni bancarie, dalle cooperative o dalle associazioni religiose, diventa strumento per monopolizzare la questione abitativa per il calcolo di margini di profitto privati, beneficiando di agevolazioni fiscali e contributi pubblici.

Da ben più di un decennio si assiste al protagonismo del privato nella gestione dell’ edilizia residenziale pubblica, unica risorsa a disposizione alle fasce di popolazione che non sono in grado di sostenere le condizioni deregolamentate del mercato, ma il diffondersi del “social housing”, sembra chiudere il capitolo di una liberalizzazione progressiva e pericolosa per l’uguaglianza sociale.

Ciò avviene parallelamente all’ arroccarsi del governo Renzi su posizioni che non tutelano affatto il diritto alla casa, ma che tramite il decreto Lupi e la negazione del diritto alla residenza o all’allacciamento alle utenze per chi occupa abusivamente un immobile (art. 5 del decreto n. 47/2014), violano gli stessi diritti alla salute e all’istruzione costituzionalmente garantiti e creano una nuova massa d’invisibili.

Nello specifico, il Programma Housing della Compagnia di San Paolo, fondazione che, ricordiamo, deve le sue prerogative sociali ed il suo sincero interesse per l’ equa redistribuzione delle risorse ad un patrimonio di 5,8 miliardi (dati 2013) ed alla partecipazione di Banca Intesa San Paolo per il 48% delle sue attività finanziarie, scrive nelle linee guida del bando:

Le proposte relative a questo ambito prevedono la temporaneità della residenza (fino a un massimo di 18 mesi), non definita a priori, ma determinata dal raggiungimento di obiettivi di autonomia abitativa.”, autonomia che non si comprende come possa realizzarsi in un arco di tempo così esiguo a fronte di una realtà di progressiva precarietà lavorativa e di generalizzata instabilità delle condizioni quotidiane del singolo o del nucleo famigliare;

Favorire l’accesso alla locazione (a canoni calmierati) per singole persone o nuclei familiari con limitate capacità di reddito, ma non caratterizzati o provenienti da situazioni di emarginazione e disagio sociale.”, caratteristica che mette in evidenza i criteri selettivi dei progetti di “social housing”, i quali dichiarano di voler contrastare la vulnerabilità sociale offrendo soluzioni abitative, ma definiscono tale vulnerabilità in maniera decisamente aprioristica e vincolata a specifici interessi. Sarebbero quindi escusi: Interventi di prima accoglienza, di pronto intervento o comunità alloggio; iniziative rivolte a persone, o a categorie di persone, in situazioni di disagio che necessitano di interventi assistenziali continuativi o per le quali non sia possibile ipotizzare, in prospettiva, un’autonomia abitativa; progetti rivolti a minorenni; i sussidi individuali destinati alla copertura dei costi abitativi.”

Se questi elementi sembrano sufficienti per porsi la domanda come possa il “social housing” delle fondazioni bancarie e dell’associazionismo speculativo sostituirsi all’ edilizia residenziale pubblica, mentre questa viene inoltre fatta scomparire, ancora più preoccupante è il singolo contenuto dei progetti destinatari dei fondi.

Ne citiamo due, in particolar modo: il progetto di “coabitazione solidale” della cooperativa Il Punto Onlus e il progetto Buena Vista della rete di cooperative e associazioni torinesi Social Club. Entrambe le realtà sono vicine di casa degli occupanti dell’ Ex-Moi, affatto beneficiari di simili trattamenti privilegiati e che anzi sono minacciati da una mozione di sgombero contro cui hanno marciato in corteo lo scorso sabato 14 Marzo. 

Ci sarebbero dunque fondi per finanziarie alloggi a canone “calmierato” che variano da 360 a 480 euro al mese (escluse spese utenze) o, in caso di alloggi per 5 persone, a 260 euro a stanza, ma non per dare risposte concrete a centinaia di rifugiati o a chi continua a subire sfratti.

Ma a nutrire il dibattito di Biennale Democrazia, Compagnia di San Paolo non sarà sola.

Al suo fianco prende parola la coordinatrice delle cooperative milanesi e del progetto housing Zoia, Federica Verona, architetto che nel 2012 pubblicò sulla rivista Domus l’articolo “Macao m’interessa, ma c’è qualcosa che non capisco”, dichiarando: “(…)senza neppure soffermarci sull’illegalità del gesto, non capisco a fondo l’occupazione di un luogo. Non la capisco, se prescinde dall’ambizione di creare un consenso intorno a sé. (…) In questo senso, forse, sarebbe stato più interessante invece produrre delle proposte di competenze da ‘vendere’ a chi costruisce la città.”.

Il riferimento è a Torre Galfa, sede di Macao, che sarebbe stata lasciata vuota da Immobiliare Lombarda, società della Fondiaria Sai, controllata dall’ indagata famiglia Ligresti. Torre Galfa sarebbe stata restituita tramite occupazione ad una cittadinanza che proprio a Milano, durante l’autunno scorso, mentre Zoia celebrava l’avviarsi del progetto di social housing, è stata sfruttata come caso mediatico per generare una percezione del disagio abitativo come questione di ordine sociale, censurando ogni legittima pretesa per il rispetto del diritto all’abitare attraverso blitz di centinaia di sgomberi condotti con aggressività e violenza eni quartieri popolari di San Siro e Giambellino.

La domanda “Chi costruisce la città?”, che fà da titolo all’incontro di Biennale Democrazia cui ha partecipato Compagnia di San Paolo, ha già una risposta.E’ una risposta chiara da tempo ed è una risposta inaccettabile.

Come movimenti per il diritto alla casa di Torino abbiamo voluto dare un valore aggiunto al contenuto cosiddetto democratico di questa Biennale.

 Sportello Diritto alla Casa Zona San Paolo, Via Millio 42 giovedì 18.30 – 20.30

Via Muriaglio Occupata, Via Muriaglio 11, Lunedì 18.30 – 20-30

Sportello Prendocasa, C.so Regina Margherita 47, Martedì 19.30 – 20.30

Sportello Ex Dazio Occupato di Pietra Alta, C.so Vercelli 440, Martedì 19.30 – 20-30

Housing sociale? Soldi rubati alle case popolari.

Guida critica al social housing

L’attuale stato di abbandono che il settore dell’ edilizia residenziale pubblica sta vivendo, sia in termini prettamente tecnici (interventi strutturali assenti, che sarebbero necessari ad un pieno sfruttamento degli alloggi popolari), sia in termini d’inesistente implementazione del patrimonio immobiliare pubblico, a fronte tuttavia di una domanda crescente che non riesce a sostenere gli sciacallaggi del mercato, si confronta con l’ accantonamento politico di una delle priorità che dovrebbe contraddistinguere lo Stato sociale e con gli atteggiamenti repressivi tenuti contro chi rivendica oggi il diritto alla casa.

Ambiente urbano, sostenibilità economica delle città, progettazione urbanistica e sperimentazione architettonica rimangono ipocritamente temi all’ordine del giorno, nonostante la classe politica ne parli escludendo ogni riferimento reale alla questione sociale sempre più pressante e sempre più evidente legata al bisogno abitativo. Da questione etica a questione estetica? Non esattamente.

Lo evidenzia la contraddizione del generalizzato entusiasmo bancario, immobiliare e dirigenziale in senso lato (entusiasmo che beneficia di un’ informazione completamente a-critica), che si sta sviluppando oggi attorno al social housing, letteralmente “edilizia sociale”, pur in un contesto in cui l’ edilizia pubblica pre-esistente viene dismessa, venduta all’ asta, progressivamente eliminata. Ma allora che cos’è il social housing?

Venduto all’opinione pubblica come espressione di un’ edilizia sociale finalmente sottratta al torpore delle inefficienze pubbliche, il social housing subentra come innovativo strumento edilizio, slegato dai passaggi burocratici per l’assegnazione degli alloggi popolari e ramificato in soluzioni personalizzate, a seconda delle specificità territoriali o progettuali, singolarmente distinte. Sulla carta.

Non le case popolari come le conosciamo, ma alloggi sociali di nuova generazione, gestiti dai privati.

Il cambiamento non è semantico dunque, ma concreto, realizzato progressivamente tramite stravolgimenti normativi che sposano, modifica dopo modifica, decreto dopo decreto, il teorema neoliberale di un pubblico fallimentare versus un privato efficiente: l’ equilibrio sociale si dovrebbe raggiungere quindi con l’equilibrio di mercato, non con una razionale e prestabilita redistribuzione delle risorse.

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Il risultato è che oggi l’ edilizia residenziale pubblica è definita come una (non la) delle diverse tipologie della più vasta categoria dell’ alloggio sociale, ovvero uno strumento residuale di interventi gestiti prevalentemente secondo logiche di programmazione finanziaria, “collegati allo sviluppo urbanistico del territorio e non esclusivamente finalizzate alla tutela delle esigenze abitative del ceto meno abbiente” (cit. Convegno Federcasa: “Una casa per tutti”, 30/11/2011)

Lo stabilisce il decreto legge 112/2008 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico” che, nella parte dedicata alle linee guida per un Piano Casa che superi “in maniera organica e strutturale il disagio sociale e il degrado urbano derivante dai fenomeni di alta tensione abitativa”, prevede “un piano di social housing da realizzarsi con capitali pubblici e capitali privati” strutturato tramite (art. 11, c. 3, e) un’ edilizia multifunzionale “anche sociale”. Anche, appunto.

Sull’ uso inopportuno di questa congiunzione si è pronunciata la stessa Corte Costituzionale con sentenza 121/2010 per l’inammissibilità di interventi di edilizia residenziale non avente carattere sociale all’interno di un piano nazionale posto a soluzione del disagio abitativo. Congiunzione oggi tolta.

Eppure la Corte non si scompone a fronte della volontà dello stesso decreto di costituire “fondi immobiliari destinati alla valorizzazione e all’incremento dell’offerta abitativa, ovvero alla promozione di strumenti finanziari immobiliari innovativi e con la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati, articolati anche in un sistema integrato nazionale e locale, per l’acquisizione e la realizzazione di immobili per l’edilizia residenziale”. Edilizia residenziale: nessuna qualifica ulteriore.

E’ Federcasa a chiarire il contenuto del decreto 112/2008, esplicitando che alle categorie classiche dell’ edilizia sovvenzionata, agevolta e convenzionata, si aggiunge l’edilizia sociale a canone moderato (social housing), realizzata da promotori privati con il concorso di contributi pubblici (premialità urbanistiche, concessione gratuita di suolo), “sviluppata attraverso interventi integrati sia sul piano dell’ utenza (mix sociale) che sul piano delle destinazioni. Lo strumento finanziario principale utilizzato, oltre al normale accesso al credito, sono i fondi immobiliari con la partecipazione dello Stato attraverso la Cassa Depositi e Prestiti”, la quale precisa sul suo sito come social housing significhi infine “edilizia privata sociale”.

Una soluzione in mano ai privati, certo, ma sulle spalle dello Stato, il quale nel frattempo sta progressivamente eliminando ogni possibile alternativo accesso a case economicamente sostenibili o a canone zero per chi privo di reddito.

E se per normativa comunitaria lo Stato sarebbe tenuto a notificare all’ Europa ogni suo finanziamento alle imprese per ottenerne parere permissivo (gli aiuti di Stato sono vietati da normativa europea per evitare distorsioni della concorrenza del mercato e vengono eventualmente concessi solo su documentazione che attesti la vera necessità della singola impresa a riceverli), il decreto ministeriale del 22 aprile 2008, mossa anticipata al decreto n. 112 dello stesso anno, titola “Definizione di alloggio sociale ai fini dell’ esenzione dall’ obbligo di notifica degli articoli 87 e 88 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea”.

Agli operatori pubblici e privati selezionati per la realizzazioni degli alloggi sociali (…) spetta una compensazione costituita da canone di locazione e dalle eventuali diverse misure stabilite dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province Autonome e dagli Enti Locali. Tale compensazione non può eccedere quanto necessario per coprire i costi derivanti dagli adempimenti del servizio, nonché un eventuale ragionevole utile”.

Quindi, non solo lo Stato non deve rendere conto dei contributi pubblici che fornirebbe ad enti privati che non rischiano il fallimento né li necessitano, ma tantomeno dà specifiche indicazioni sui limiti entro i quali dovrebbe rimanere il ragionevole utile di profitto che spetta loro per l’erogazione di questi servizi.

Le imprese private non hanno perdite e guadagnano, le casse pubbliche perdono e basta, nonostante sia lo stesso decreto Lupi, Piano-Casa 2014, a giustificare la necessaria svendita delle case popolari per ragioni di “razionalizzazione del patrimonio e riduzione degli oneri a carico della finanza locale”.

Sono proprio i contributi pubblici a far sì che l’ abbassamento dei costi di realizzazione renda possibile i canoni d’affitto minori di quelli di mercato. Minori? Nella maggior parte dei casi la differenza è esigua: nessuna impresa privata ha interesse a fornire aloggi a chi completamente privo di potere d’acquisto.

Ecco perchè quel “non esclusivamente finalizzate alla tutela delle esigenze abitative del ceto meno abbiente” e i continui riferimenti alla classe media temporaneamente colpita dalla crisi che si ritrovano in numerosi progetti di social housing.

A fronte di un mutamento della composizione sociale dovuto alla precarizzazione del lavoro non si parla di riformulazione dei criteri per l’accesso alle graduatorie di assegnazione degli alloggi popolari, che nel frattempo si riducono di numero, ma di progetti circoscritti per interventi di social housing “site specific”, ampiamente discrezionali nella scelta dei beneficiari: a volte le giovani coppie, a volte i nuclei monofamigliari, altre gli studenti, altre ancora chi con reddito insufficiente per accedere al mercato, senza tuttavia alcuna uniformità procedurale e senza un’effettiva equità alla luce delle selezioni.

La stessa discrezionalità è alla base delle scelte d’ investimento di Cassa Depositi e Prestiti, la quale, è necessario chiarirlo, usa i soldi dei risparmiatori postali per finanziare gli enti pubblici dal lontano 1850, ma a partire dal 2006 si è aperta anche ai soggetti privati. Il processo di mutazione genetica della Cassa si deve al governo Berlusconi, che nel 2003 la trasforma in una società per azioni, con l’apertura a più di 50 enti bancari. Al comando siedono un ex ministro, Franco Bassanini ed un banchiere, Giovanni Gorno Tempini, emblemi di una partnership tra pubblico-privato che a detta loro dovrebbe avere i fini sociali del pubblico e l’efficienza del privato, ma in realtà tende ad avere i fini sociali del privato e l’inefficienza del pubblico.

Ed è alla pressione delle lobby che possiedono le azioni principali della Cassa che viene delegata l’individuazione dell’ “interesse collettivo”, all’interno del quale cade anche il profilo dei nuovi strumenti di edilizia privata sociale. Una tutela garantita.

Per quel che riguarda la città di Torino, considerata la “capitale del social housing” per quantità di progetti all’ attivo e previsti, allora è elemento quantomeno rilevante che il sindaco Fassino sia consigliere di Cassa Depositi e Prestiti e che Compagnia di San Paolo sia una delle maggiori fondazioni azionarie.

Di fronte alle dimissioni del ministro Lupi, firmatario del Piano-Casa, per evidente imbarazzo generato dall’inchiesta su Ettore Incalza, padrino del Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, indagato per corruzione nella gestione degli appalti delle Grandi Opere, di fronte ad un disagio sociale crescente, come non condannare lo spreco di risorse pubbliche, come non condannare la repressione che subisce chi rivendica i proprio diritti, come non condannare il neoliberalismo dilagante, il continuo sacrificio di molti per il beneficio di pochi?

La caritatevole Chiesa

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L’ 11 febbraio, a Napoli, 35 famiglie vengono sgomberate dall’ex scuola media Belvedere, edificio di proprietà delle suore dell’Ordine del Buon Pastore. La struttura era stata occupata nel 2011 in reazione a quanto avvenuto il 25 luglio, quando, per ritardo nel pagamento dell’affitto, pagato dal Comune per poter usufruire di uno dei pochi stabili a norma della zona, gli alunni della scuola media statale Belvedere erano stati sfrattati.

Un video dello sgombero e le dichiarazioni dell’Ordine:

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2015/02/14/napoli-suore-fanno-sgomberare-35-occupanti-trovino-altro-ordine-religioso/340160/

 

L’articolo 5 del Piano-Casa

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Proponiamo un’analisi del sito d’informazione Dinamo Press, pubblicata lo scorso anno poco dopo l’approvazione del decreto n. 47/2014 ovvero “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”

http://www.dinamopress.it/news/lart-5-del-piano-casa-di-renzi-e-lupi-e-il-diritto-ad-esistere

Un ripasso sempre utile su cosa significhi per il governo intervenire urgentemente per l’emergenza abitativa: negare l’allacciamento alle utenze ed il diritto alla residenza agli e alle occupanti, senza tuttavia fornire alcuna soluzione alternativa.

L’ultima inchiesta statistica ufficiale per il monitoraggio degli sfratti nel 2011 manifestava già dati preoccupanti:

“Le sentenze di sfratto emesse sono state 63.846, motivate nell’ 1,3% per necessità, nell’ 11,7% per finita locazione e per ben l’87% per morosità; delle sentenze emesse nel 2011 il 49,5% sono state emesse nei comuni capoluoghi e il 50,5% nei comuni della provincia; le richieste di esecuzione di sfratti presentate alle forze dell’ordine da parte degli ufficiali giudiziari sono state 123.914 e gli sfratti eseguiti in presenza dell’ufficiale giudiziario coadiuvato dalle forze dell’ordine sono stati 28.641; sono invece sconosciuti i dati relativi all’allontanamento spontaneo dall’alloggio da parte di sfrattati che non hanno atteso l’arrivo della forza pubblica; di fatto in Italia sono eseguiti 140 sfratti al giorno” (Fonte: Sistan 2013)

Sfratti per i quali di fatto non è fornito alcun percorso di passaggio da casa a casa.

Le conseguenze dell’applicazione dell’articolo 5 del Piano-Casa sono ormai evidenza empirica: la task-force di sgomberi avvenuta a Milano nell’autunno-inverno del 2014 è l’esempio più eclatante di come per “emergenza abitativa” il governo intenda “emergenza occupazioni”.

La negazione del diritto alla residenza impedirà l’accesso ai servizi sanitari o all’istruzione a coloro che occupano una casa perché esclusi dai parametri economici con cui lo Stato misura oggi il grado di “necessità” degli individui. In mancanza di uno dei presupposti fondamentali per accedere ad un elenco vastissimo di servizi, non erogabili se si è privi di una residenza, gli occupanti e le occupanti vedranno cancellato il loro diritto ad esistere.

A fianco dei compagni NoTav e contro le Grandi Opere

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Anche lo Sportello per il Diritto alla Casa Zona San Paolo, gli occupanti e le occupanti saranno presenti alla marcia NoTav del 21/02/2015:

  • per ribadire l’assurdità delle condanne attribuite a compagni e compagne che da anni difendono il diritto di tutti e di tutte di non subire sulla nostra pelle il lobbismo di inutili appalti

  • per denunciare il contenuto politico di decisioni giudiziarie poco “al di sopra delle parti”, secondo le quali sarebbero 140 gli anni complessivi di carcere e circa 150.000 gli euro di risarcimento da corrispondere ai ministeri, a LTF e ai sindacati di polizia.

  • per contrastare un clima politico e culturale che vorrebbe ridurre ogni forma di dissenso sotto la strumentale etichetta di terrorismo

  • perché la questione del Tav non riguarda la sola Valsusa, ma riguarda tutti i territori ed il nostro sistema economico. La Tav è specchio di politiche corrotte e torbide che deviano risorse pubbliche dai servizi sociali per priorità di pochi a scapito delle esigenze collettive.

    Il diritto alla casa è uno di essi.

    Sì alle Grandi Opere, ma no alla piena occupazione, al diritto all’istruzione o alle case popolari?

    Chi dovrebbe chiederlo il risarcimento danni?

L’appuntamento è il 21/02, h14.00 in Piazza Statuto

When housing is a luxury, squatting is a necessity

(Quando l’abitare è un lusso, occupare è una necessità)

Schermata 2015-02-13 alle 15.34.30Titolavano così gli striscioni dei movimenti per il diritto alla casa degli anni Novanta a San Francisco (Homes not Jails) contro le politiche urbane cittadine, incapaci di fronteggiare i tassi di densità abitativa.

Passa il tempo e si spostano i luoghi, ma resta l’evidenza di un conflitto sociale irrisolto.

Presente da anni sul territorio, lo Sportello per il Diritto alla Casa Zona San Paolo ben conosce le conseguenze delle politiche abitative che si sono succedute nel corso degli ultimi decenni in Italia e il recentissimo decreto Lupi, il cosiddetto Piano-Casa 2014, ci ricorda che il diritto alla casa è tutt’altro che garantito.

La svendita delle case popolari (a prezzi di mercato che pochi potranno sostenere), la feroce lotta alle occupazioni, il taglio degli allacciamenti alle utenze, il sempre più difficile accesso alle graduatorie per l’ottenimento di alloggi di edilizia pubblica e la criminalizzazione generalizzata della povertà sono il refrain sempre più frequente che si nasconde tra le notizie di cronaca e gli slogan partitici.

L’ applicazione dell‘art. 610 del codice di procedura civile, cui stiamo assistendo a Torino come pratica di contrasto ai picchetti anti-sfratto e l’ aggressività delle azioni repressive a tutela delle élite proprietarie sono le rivelazioni palesi di politiche che perseguono l’alienazione e l’esclusione delle categorie sociali più fragili, piuttosto che la loro difesa.

Di fronte all’inasprirsi dell’emergenza abitativa, di fronte allo sciacallaggio di suolo per gli investimenti speculativi del settore immobiliare e di fronte alla lenta morìa dell’edilizia residenziale pubblica, diventa allora sempre più importante contrastare le strumentalizzazioni mediatiche che demonizzano la lotta per il diritto alla casa in Italia e a Torino e che, in nome di una non meglio definita nozione di “legalità” puntano il dito contro chi, privato ormai di diritti, non può far altro che alzare la testa e rivendicarli.

E’ per il ruolo fondamentale della contro-informazione come strumento di difesa e di critica che nasce il nuovo blog dello Sportello per il Diritto alla Casa Zona San Paolo: per demistificare i toni mediatici che edulcorano il problema dell’emergenza abitativa, per decostruire il dogma di “legalità e sicurezza”, oggi brandito per legittimare sfratti, sgomberi e pratiche repressive, per opporsi a chi dipinge la lotta per il diritto alla casa come una questione di ordine pubblico.

Per una migliore consapevolezza ed una maggiore condivisione di fatti e pratiche:

leggete, condividete, commentate!

O sei parte del problema o sei parte della soluzione: resistere insieme si può!

Schermata 2015-02-13 alle 15.12.13Stay tuned…

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