Guida critica al social housing
L’attuale stato di abbandono che il settore dell’ edilizia residenziale pubblica sta vivendo, sia in termini prettamente tecnici (interventi strutturali assenti, che sarebbero necessari ad un pieno sfruttamento degli alloggi popolari), sia in termini d’inesistente implementazione del patrimonio immobiliare pubblico, a fronte tuttavia di una domanda crescente che non riesce a sostenere gli sciacallaggi del mercato, si confronta con l’ accantonamento politico di una delle priorità che dovrebbe contraddistinguere lo Stato sociale e con gli atteggiamenti repressivi tenuti contro chi rivendica oggi il diritto alla casa.
Ambiente urbano, sostenibilità economica delle città, progettazione urbanistica e sperimentazione architettonica rimangono ipocritamente temi all’ordine del giorno, nonostante la classe politica ne parli escludendo ogni riferimento reale alla questione sociale sempre più pressante e sempre più evidente legata al bisogno abitativo. Da questione etica a questione estetica? Non esattamente.
Lo evidenzia la contraddizione del generalizzato entusiasmo bancario, immobiliare e dirigenziale in senso lato (entusiasmo che beneficia di un’ informazione completamente a-critica), che si sta sviluppando oggi attorno al social housing, letteralmente “edilizia sociale”, pur in un contesto in cui l’ edilizia pubblica pre-esistente viene dismessa, venduta all’ asta, progressivamente eliminata. Ma allora che cos’è il social housing?
Venduto all’opinione pubblica come espressione di un’ edilizia sociale finalmente sottratta al torpore delle inefficienze pubbliche, il social housing subentra come innovativo strumento edilizio, slegato dai passaggi burocratici per l’assegnazione degli alloggi popolari e ramificato in soluzioni personalizzate, a seconda delle specificità territoriali o progettuali, singolarmente distinte. Sulla carta.
Non le case popolari come le conosciamo, ma alloggi sociali di nuova generazione, gestiti dai privati.
Il cambiamento non è semantico dunque, ma concreto, realizzato progressivamente tramite stravolgimenti normativi che sposano, modifica dopo modifica, decreto dopo decreto, il teorema neoliberale di un pubblico fallimentare versus un privato efficiente: l’ equilibrio sociale si dovrebbe raggiungere quindi con l’equilibrio di mercato, non con una razionale e prestabilita redistribuzione delle risorse.
Il risultato è che oggi l’ edilizia residenziale pubblica è definita come una (non la) delle diverse tipologie della più vasta categoria dell’ alloggio sociale, ovvero uno strumento residuale di interventi gestiti prevalentemente secondo logiche di programmazione finanziaria, “collegati allo sviluppo urbanistico del territorio e non esclusivamente finalizzate alla tutela delle esigenze abitative del ceto meno abbiente” (cit. Convegno Federcasa: “Una casa per tutti”, 30/11/2011)
Lo stabilisce il decreto legge 112/2008 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico” che, nella parte dedicata alle linee guida per un Piano Casa che superi “in maniera organica e strutturale il disagio sociale e il degrado urbano derivante dai fenomeni di alta tensione abitativa”, prevede “un piano di social housing da realizzarsi con capitali pubblici e capitali privati” strutturato tramite (art. 11, c. 3, e) un’ edilizia multifunzionale “anche sociale”. Anche, appunto.
Sull’ uso inopportuno di questa congiunzione si è pronunciata la stessa Corte Costituzionale con sentenza 121/2010 per l’inammissibilità di interventi di edilizia residenziale non avente carattere sociale all’interno di un piano nazionale posto a soluzione del disagio abitativo. Congiunzione oggi tolta.
Eppure la Corte non si scompone a fronte della volontà dello stesso decreto di costituire “fondi immobiliari destinati alla valorizzazione e all’incremento dell’offerta abitativa, ovvero alla promozione di strumenti finanziari immobiliari innovativi e con la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati, articolati anche in un sistema integrato nazionale e locale, per l’acquisizione e la realizzazione di immobili per l’edilizia residenziale”. Edilizia residenziale: nessuna qualifica ulteriore.
E’ Federcasa a chiarire il contenuto del decreto 112/2008, esplicitando che alle categorie classiche dell’ edilizia sovvenzionata, agevolta e convenzionata, si aggiunge l’edilizia sociale a canone moderato (social housing), realizzata da promotori privati con il concorso di contributi pubblici (premialità urbanistiche, concessione gratuita di suolo), “sviluppata attraverso interventi integrati sia sul piano dell’ utenza (mix sociale) che sul piano delle destinazioni. Lo strumento finanziario principale utilizzato, oltre al normale accesso al credito, sono i fondi immobiliari con la partecipazione dello Stato attraverso la Cassa Depositi e Prestiti”, la quale precisa sul suo sito come social housing significhi infine “edilizia privata sociale”.
Una soluzione in mano ai privati, certo, ma sulle spalle dello Stato, il quale nel frattempo sta progressivamente eliminando ogni possibile alternativo accesso a case economicamente sostenibili o a canone zero per chi privo di reddito.
E se per normativa comunitaria lo Stato sarebbe tenuto a notificare all’ Europa ogni suo finanziamento alle imprese per ottenerne parere permissivo (gli aiuti di Stato sono vietati da normativa europea per evitare distorsioni della concorrenza del mercato e vengono eventualmente concessi solo su documentazione che attesti la vera necessità della singola impresa a riceverli), il decreto ministeriale del 22 aprile 2008, mossa anticipata al decreto n. 112 dello stesso anno, titola “Definizione di alloggio sociale ai fini dell’ esenzione dall’ obbligo di notifica degli articoli 87 e 88 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea”.
“Agli operatori pubblici e privati selezionati per la realizzazioni degli alloggi sociali (…) spetta una compensazione costituita da canone di locazione e dalle eventuali diverse misure stabilite dallo Stato, dalle Regioni e dalle Province Autonome e dagli Enti Locali. Tale compensazione non può eccedere quanto necessario per coprire i costi derivanti dagli adempimenti del servizio, nonché un eventuale ragionevole utile”.
Quindi, non solo lo Stato non deve rendere conto dei contributi pubblici che fornirebbe ad enti privati che non rischiano il fallimento né li necessitano, ma tantomeno dà specifiche indicazioni sui limiti entro i quali dovrebbe rimanere il ragionevole utile di profitto che spetta loro per l’erogazione di questi servizi.
Le imprese private non hanno perdite e guadagnano, le casse pubbliche perdono e basta, nonostante sia lo stesso decreto Lupi, Piano-Casa 2014, a giustificare la necessaria svendita delle case popolari per ragioni di “razionalizzazione del patrimonio e riduzione degli oneri a carico della finanza locale”.
Sono proprio i contributi pubblici a far sì che l’ abbassamento dei costi di realizzazione renda possibile i canoni d’affitto minori di quelli di mercato. Minori? Nella maggior parte dei casi la differenza è esigua: nessuna impresa privata ha interesse a fornire aloggi a chi completamente privo di potere d’acquisto.
Ecco perchè quel “non esclusivamente finalizzate alla tutela delle esigenze abitative del ceto meno abbiente” e i continui riferimenti alla classe media temporaneamente colpita dalla crisi che si ritrovano in numerosi progetti di social housing.
A fronte di un mutamento della composizione sociale dovuto alla precarizzazione del lavoro non si parla di riformulazione dei criteri per l’accesso alle graduatorie di assegnazione degli alloggi popolari, che nel frattempo si riducono di numero, ma di progetti circoscritti per interventi di social housing “site specific”, ampiamente discrezionali nella scelta dei beneficiari: a volte le giovani coppie, a volte i nuclei monofamigliari, altre gli studenti, altre ancora chi con reddito insufficiente per accedere al mercato, senza tuttavia alcuna uniformità procedurale e senza un’effettiva equità alla luce delle selezioni.
La stessa discrezionalità è alla base delle scelte d’ investimento di Cassa Depositi e Prestiti, la quale, è necessario chiarirlo, usa i soldi dei risparmiatori postali per finanziare gli enti pubblici dal lontano 1850, ma a partire dal 2006 si è aperta anche ai soggetti privati. Il processo di mutazione genetica della Cassa si deve al governo Berlusconi, che nel 2003 la trasforma in una società per azioni, con l’apertura a più di 50 enti bancari. Al comando siedono un ex ministro, Franco Bassanini ed un banchiere, Giovanni Gorno Tempini, emblemi di una partnership tra pubblico-privato che a detta loro dovrebbe avere i fini sociali del pubblico e l’efficienza del privato, ma in realtà tende ad avere i fini sociali del privato e l’inefficienza del pubblico.
Ed è alla pressione delle lobby che possiedono le azioni principali della Cassa che viene delegata l’individuazione dell’ “interesse collettivo”, all’interno del quale cade anche il profilo dei nuovi strumenti di edilizia privata sociale. Una tutela garantita.
Per quel che riguarda la città di Torino, considerata la “capitale del social housing” per quantità di progetti all’ attivo e previsti, allora è elemento quantomeno rilevante che il sindaco Fassino sia consigliere di Cassa Depositi e Prestiti e che Compagnia di San Paolo sia una delle maggiori fondazioni azionarie.
Di fronte alle dimissioni del ministro Lupi, firmatario del Piano-Casa, per evidente imbarazzo generato dall’inchiesta su Ettore Incalza, padrino del Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, indagato per corruzione nella gestione degli appalti delle Grandi Opere, di fronte ad un disagio sociale crescente, come non condannare lo spreco di risorse pubbliche, come non condannare la repressione che subisce chi rivendica i proprio diritti, come non condannare il neoliberalismo dilagante, il continuo sacrificio di molti per il beneficio di pochi?